
GAZMEND KRASNIQI
OGNI COSA AL SUO POSTO
Buono, giorno, andatevene! È ora che io parli
Della speranza che tenevo nel silenzio della notte.
Quel che pensavo della poesia della vita:
Cresce come gemma bianca, ma scorre come un fiume
Di ricordi da essa, anche perché non voglio lasciare
Nulla nel passato; brucia come fuoco, ma non succede niente;
Cresce come cresce un esercito, ma le immagini
Che volano, hanno lasciato aperta
Una fossa di malinconia silenziosa. Per questo
La reinvento, per questo mi convinco di nuovo che non esiste,
che si è ritirata da qualche parte, una tasca d’universo,
a far qualcosa con le mie idee,
Ormai lo so, poesia monotona; non potei
Riempirvi, tranne che con voi stessi,
L’eco dell’uomo che io fui,
Che voleva giustificare la misura del poeta.
Ecco dove sonnecchiamo: il paralume, dove lui versava versi,
La finestra dove mirava la luna, le stelle, il mondo,
Lo scaffale dei libri,
Lo stesso piatto scalfito che doveva lavare
Ed io che penso le cose che doveva pensare.
NON C’E TEMPO
Il rullo dell’estate passò di fianco, ma ci lasciò senza fiato.
Non c’è tempo – in Così Dunque, il primo pensiero
Sovrasta la testa: escono gli eroi
Dal cespuglio della notte – per la lode dei numi
Morti mostrano i primi frutti, il mosto
Color ruggine nel calice del cielo,
E l’esercito degli alberi avvisa la città:
“Arrivo!”. Non c’è tempo – chi beve il nettare degli dei.
Fosse anche morto, pensa: è vero
Il fiume dell’autunno, che si versa sulle rive;
Negli specchi delle ombre e delle stelle; nelle parole
delle immagini temporanee come isole
di suoni e lumi. Finché soffierà
Nel mondo un altro silenzio, dove siede
un uomo e domanda: se sappiamo ogni cosa,
perché parliamo ancora? I suoi occhi – due cuccioli:
stanno inventando l’incanto.
ORA CHE I BARBARI NON SONO ARRIVATI
Ora che i barbari non sono arrivati e per noi prendono vita
Le decisioni assopite, senza vesti ufficiali, senza discorsi del momento,
Ti mostro i luoghi dov’erano i giornali, il caffè, il latte
E la tenda; adesso più che materia di legno, materia del ricordo.
guarda i vapori invisibili della Terra, come faville dell’umore di Dio,
Anche perché le dita della Superna Luce può darsi che non siano il nostro tetto.
Anche questa chiamala canzone: le focacce della sua benevolenza,
Finché il cuore ci regge, forse ci portano oltre la montagna delle voci,
Dove la vita che non accadde, si misura con l’inno del deicidio sul pentagramma
Delle sette note, come il maglio del tic-tac – è il caso di salvare
Anche una catacresi – dell’orologio da polso senza vita, finché i barbari,
Che restano sempre una soluzione, ci portino le loro metafore.
CHIAMALA CANZONE
Mi guarda e l’acqua si sveglia. Ed inizia la canzone monotona
del rubinetto. Mi guarda ed il sole si sveglia. E fa segno
con una nube: in un giorno come questo dobbiamo fare l’occhiolino l’un l’altro;
È ancora presto per parlare di morte; ciascuno di noi
Deve saper prendere sotto braccio il sogno – l’eco
Della sua vita in un’altra vita – o la domanda: comincia a soffiare
anche là un vento che punge fino all’osso, fino al cuore?
Va male se non basta neanche Paul Klee che il giorno
Abbia colori, quando vedi nel cestino il romanzo della fanciulla,
Che disse “non va!” e lo strappò ed iniziò un altro,
Ormai senza immagini, e tu non indovini se vince la parola sull’immagine.
È sempre peggio passare per qualche curva stradale
Senza un’idea, come credeva Camus, e perdere l’occasione,
Come Archimede, di gettare all’aria il giorno morto.
Se non troviamo la metafora per la fuga dell’autunno,
Babbo Natale se la prende col sole: Per sottoscrivere qualche verso,
Le immagini chiedono libertà – possiamo trovargli dei nomi, come ai denti,
Ai mattoni che scivolano sotto i piedi; i segreti, come uccelli, possono
Allungare il collo e affrontare sette volte il giorno –
Ma un piede lo tengono sempre sulla morte:
Come la poesia, Babbo Natale non conosce confini per sé.
Il peggio sarà se la nube, così vicina al sole
Che tu hai dipinto in dettaglio e a colori, ed io – contrasti e forme;
Il gatto lo fece pesce, il pesce – gatto;
L’erba lo fece brina, la brina – ala d’uccello;
Non è la busta che rimanda la morte d’estate,
Quando illumina anche il dubbio di Dio
E la bocca della terra si apre più facilmente.
Tradotto da Denis Gila
GAZMEND KRASNIQI è nato a Scutari e vive a Tirana (Albania). È poeta, romanziere, drammaturgo, saggista, antologo e storico della letteratura.
Parte della sua creatività è inclusa in New European Poets (Graywolf Press,USA 2008); Voix Vive… Anthologie Sète 2017, Èditions Bruno Doucey; www.transcript-review.org (english, french, german) (online); ORTE (Schweizer literaturzeitschrift/ 189/ Dezember 2016) Six poems, The Galway Review, 2015 (online): Antologia della letteratura albanese contemporanea, Bleveditore (Tricase – Lecce – Italy, 2007); Poésie albanaise (L’arbre á parole, /137/ Amay – Belgique, 2007); Pécs májusban (22xPécs), Pécs 2010; Izbor iz savremene albanske proze, OVO Prostory, Podgorica, 2011; Cobpemeha пoеэија ha Aлбанија, CBП ‘96.
È un dottore in scienze filologiche. Inoltre, è il fondatore della rivista letteraria Palimpsest.
La critica è espressa che è al timone della nuova ondata poetica ed è uno dei poeti chiave della nuova poesia albanese.
Queste poesie sono estratte dall'ultimo volume poetico "Antipoezi" (Antipoesie), "Fenix", Tirana 2021
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